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Carlo Di Rudio,

un rivoluzionario "patriota" nel Far West

Stefano Deliperi

È certamente difficile trovare una definizione che possa compendiare la figura di Carlo Camillo Di Rudio, forse ancora poco conosciuta, ma di fortissima intensità.



Il patriota.
Carlo Camillo Di Rudio nacque a Belluno il 26 agosto 1832 dal conte Ercole Placido e dalla contessa Elisabetta de Domini.
Fin da piccolo era soprannominato Moretto, per i capelli corvini.
All’età di 15 anni, insieme al fratello Achille, venne avviato alla carriera militare e iscritto alla Scuola militare "Teuliè" di Milano; di corporatura robusta, era considerato coraggioso e temerario.
Nel 1848, nel corso delle cinque giornate di Milano, durante il trasferimento a Graz dei cadetti della Scuola militare, assistette allo stupro e al successivo omicidio di due donne incinte da parte di soldati austriaci di origine croata.
Insieme al fratello uccise uno degli assassini, passando dalla parte dei patrioti insorti.
Via Belluno, giunse con il fratello Achille e Pier Fortunato Calvi a Venezia, con i Cacciatori delle Alpi, per la difesa della Repubblica.
Durante l’epica e disperata difesa di Venezia, morì Achille per febbri coleriche.

Villa Rudio

Dopo la morte del fratello, Carlo Di Rudio, braccato dagli austriaci, andò a difendere la Repubblica Romana (1849) e conobbe Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Goffredo Mameli, Nino Bixio, Enrico ed Emilio Dandolo, Aurelio Saffi.
Caduta Roma e Venezia, inseguito dalla polizia asburgica, fuggì in Francia, dove – nel 1851 – si schierò con i Giacobini che si opponevano al colpo di stato di Napoleone III.
Sempre nel 1851 partecipa all’insurrezione mazziniana (fallita) nel Cadore, durante la quale il padre Ercole Placido e la sorella maggiore Luigia vennero arrestati e tradotti nel carcere di Mantova.
Nel 1857 si recò a Genova, per imbarcarsi alla volta dell’America del Nord.
Naufragato sulle coste della Spagna, si recò in Francia, poi in Svizzera e in Piemonte (dove incontrò i genitori).
Si recò, infine, in Inghilterra, dove incontrò Eliza Booth, sua futura moglie.
Per qualche tempo divenne giardiniere del filantropo Luigi Pinciani, amico di Victor Hugo e di Mazzini.

Il rivoluzionario.
Ma la causa irredentista era un richiamo troppo forte, anche per azioni dalle motivazioni poco lineari: aderendo alla tesi d’ispirazione repubblicana, riteneva Napoleone III responsabile del fallimento dei moti italiani e della I guerra d’indipendenza (1848-1849).

Carlo di Rudio

Partecipò, quindi, allo sciagurato attentato organizzato da Felice Orsini.
La sera (verso le 20.30) del 14 gennaio 1858, a Parigi, in Rue Lepelletier, nei pressi dell’Opèra National de Paris, insieme a Giovanni Andrea Pieri, ad Antonio Gomez, al francese Simon Francois Bernard (l’unico che poi riuscirà a fuggire) e allo stesso Orsini, lanciò ben tre bombe che lasciarono praticamente illeso l’imperatore Napoleone III (subì solo una leggera ferita a una guancia) e l’imperatrice Eugenia, ma uccisero 12 persone e ne ferirono 156 fra la folla e la scorta.
Venne arrestato subito.
Nel febbraio iniziò il processo che si concluse il 13 marzo 1858 con la condanna a morte mediante ghigliottina di Felice Orsini e Giovanni Andrea Pieri.

L’ergastolano.
Carlo Camillo Di Rudio venne anch’egli condannato a morte in un primo momento, ma la condanna venne commutata – grazie all’abilità dei propri avvocati e alle pressioni inglesi – nell’ergastolo presso la terribile colonia penale dell’Isola del Diavolo (Cayenna), nella Guyana francese.
Fin da subito cercò di fuggire e dovette difendersi energicamente dagli stessi altri ergastolani, in quanto veniva considerato un "pericoloso sovversivo".
Dopo un primo tentativo fallito, riuscì ad evadere insieme ad alcuni compagni di pena, suscitando un grande clamore internazionale.
Inseguito dai francesi, riuscì a riparare nella Guyana britannica, dove trovò protezione.

La "giacca blù".
Nel 1860 rientrò in Inghilterra, dove riabbracciò i suoi cari dopo anni di lontananza.

7° Cavalleria, stemma

In ristrettezze economiche, pur braccato dalle polizie francese e austriaca, desiderava prender parte al Risorgimento, ma alla fine – con in tasca una lettera di presentazione di Giuseppe Mazzini – decise di emigrare in America.
Nel 1861 era a New York, dove anglicizzò il nome in Charles De Rudio.
L’esercito federale degli Stati Uniti era impegnato nella sanguinosa guerra di secessione (1861-1865) e necessitava di soldati esperti: Charles lo era e si arruolò quale volontario in sostituzione di un giovane americano ricco nel 79° Volontari Highlanders di New York.
Ben presto la sue esperienza e le sue capacità lo misero in luce e venne nominato sottotenente in una compagnia formata quasi esclusivamente da soldati di colore del 2° United States Colored Troops, impegnato come polizia militare in Florida.
Terminata nel 1865 la vittoriosa guerra di secessione, con una lettera di raccomandazione di alcuni influenti amici repubblicani (gli unici che conoscevano il suo passato "rivoluzionario"), Charles De Rudio venne incorporato permanentemente nell’esercito statunitense e assegnato al 7° Reggimento Cavalleria (1869), reggimento di cavalleria nato dopo la riforma del 1866 e destinato alle prossime guerre indiane, determinate, in buona sostanza, dalla progressiva invasione dei bianchi per la corsa all’oro nelle Black Hills, territorio di grande importanza mistica e culturale per i nativi Sioux (Lakota), oltre che tradizionale terreno di caccia.

Operazioni del 7° Cavalleria sulle Black Hills, 1874

Operazioni del 7° Cavalleria sulle Black Hills, 1874


Nel 1876 venne assegnato alla colonna di cavalleria del Dakota comandata da uno dei personaggi più controversi della storia americana, il tenente colonnello George Armstrong Custer.
Doveva muovere da Fort Riley, sede del reparto, nel Kansas, con sei squadroni del 7° Cavalleria, sette compagnie del 37° Fanteria e una batteria del 4° Artiglieria per ridurre a più miti consigli le tribù di nativi americani della zona e evitare che attaccassero nuovamente gli insediamenti dei bianchi nelle pianure.
La colonna del Dakota partì lungo la valle del Torrente Rosebud in direzione della località chiamata Little Big Horn.
Lì si sarebbe compiuto il destino del tenente colonnello Custer e di oltre 260 soldati.

Il 7° Cavalleria e la battaglia di Little Big Horn.
Il 7° Reggimento Cavalleria nacque con la riforma dell’esercito federale del 1866, al termine della guerra di secessione (1861-1865).
Con la riforma l’esercito diventava una sorta di polizia militare interna, con il compito fondamentale di mantenere l’ordine negli Stati del Sud appena sconfitti e nei territori semi-sconosciuti dell’Ovest, dove la "minaccia" era costituita dalle "nazioni" dei nativi.
Venne nominato primo comandante il colonnello Andrew J. Smith, già generale di divisione "brevet" (cioè temporaneo, per il solo tempo di guerra).
Presto venne affiancato da un altro generale "brevet", George Armstrong Custer, integrato nel reparto il 25 settembre 1866 e comandante dal 3 novembre 1866, quando il col. Smith venne destinato al Quartier generale dell’esercito federale.

George Armstrong Custer

George Armstrong Custer


Il 7° Cavalleria era in parte un reparto di veterani, reduci – da parti opposte – dalla guerra di secessione e dalle guerre indiane (in quegli anni aveva avuto 36 morti in combattimento, 27 feriti, 6 annegati e 51 deceduti a causa del colera).
Però, almeno il 20% degli effettivi (139 su 718) era stato arruolato da poco, spesso proveniva dai tanti immigrati europei (tedeschi, inglesi, italiani, irlandesi, ecc.), non sapeva nemmeno andare a cavallo né sparare. Molti non comprendevano l’inglese.
Per esempio, dei 262 caduti a Little Big Horn, 90 non avevano neanche la cittadinanza americana.
Sicuramente era la paga uno degli incentivi più forti per l’arruolamento: 13 dollari al mese per un soldato, 22 dollari al mese per un sergente scapolo.
Dopo la prima vestizione (giacca e camicia blu scura, pantaloni blu chiari, stivaloni alti), però, la divisa era a carico del militare e questo costituiva un incentivo per i capi di vestiario più stravaganti.
Lo stesso Custer era noto per una giacca di pelle chiara di cervo con le frange e commentava amaramente lo stato del reparto: "l’esercito è composto da individui dissoluti e fannulloni e da stranieri miserabili.
A costoro si aggiungano altri individui indesiderabili quali criminali, bruti, pervertiti e ubriaconi".
Inoltre, fra i veterani, parecchi cavalleggeri militavano fino a poco tempo prima in eserciti fieramente opposti durante la guerra di secessione.

Indiani

L’armamento di reparto (mitragliatrici, cannoni leggeri) era inesistente ed era costituito da quello dei singoli soldati: la carabina Spencer calibro 0,50 a 7 colpi e a caricamento singolo, la pistola a tamburo Colt 0,45 a 6 colpi e la sciabola, sebbene quest’ultima veniva usata solo di rado (1).
Per migliorare l’addestramento dei soldati e il rancio stesso, Custer li impiegava spesso in cacce al Bisonte (Bison bison), così come si impegnava per infondere orgoglio e spirito di corpo fra ufficiali (fra cui c’era il fratello, capitano Tom Custer, e il cognato, tenente James Calhoun) e truppa.
Fra le varie iniziative c’era quella dell’adozione di "Garry Owen" ("Il giardino di Garry") quale inno reggimentale: un brano gaelico seicentesco, già canto di diversi reparti militari irlandesi, inglesi, canadesi e statunitensi (il 69° Infantry RegimentNew York Militia, reparto di immigrati irlandesi).
Custer l’adottò come inno su suggerimento del capitano Myles Keogh e costituì una piccola banda reggimentale di 13 musicisti diretta dall’italiano Felix Vinatieri, garibaldino e veterano delle guerre risorgimentali, uno dei pochi sopravvissuti di Little Big Horn (2).
Il 25 giugno 1876, nella parte orientale del Montana, a Little Big Horn, Custer e il suo 7° Cavalleria sarebbero passati alla storia.
La condotta di Custer non fu certo esemplare sotto il profilo militare: avuta notizia della presenza di un villaggio e un concentramento di qualche centinaio di guerrieri appartenenti alle nazioni LakotaSiouxCheyenne e Arapaho nella vallata del Torrente Rosebud, suddivise la colonna del Dakota (sei squadroni del 7° Cavalleria, sette compagnie del 37° Fanteria e una batteria del 4° Artiglieria) in quattro contingenti: lui stesso con cinque squadroni (211 uomini), il capitano Benteen e il capitano Reno con tre squadroni ciascuno (115 e 141 uomini rispettivamente), e il capitano Mc Dougall con 128 uomini per scortare le salmerie.
Di fatto divise le forze, pur non avendo ben chiara la posizione dei guerrieri nativi, anzi sottovalutandone il numero (stimava solo qualche centinaio di guerrieri).
Le truppe e i cavalli, poi, erano stanchi per la lunga marcia e difficilmente i quattro contingenti avrebbero potuto sostenersi a vicenda.

"Little Big Horn, gli squadroni del cap. Reno (1876)


Il capitano Marcus Reno con i suoi tre squadroni aveva ricevuto l’ordine di aggirare il villaggio e attaccarlo sul fianco: lo fece coraggiosamente – come in seguito avrebbe appurato l’inchiesta militare – ma si ritrovò contro forze native di gran lunga superiori e venne assediato su una collinetta coperta di vegetazione fino al giorno dopo.
Con tale contingente era il tenente De Rudio e combattè con grande valore.
Quando Custer avvistò il villaggio delle nazioni native, si rese – finalmente – conto del numero (complessivamente forse 10-12 mila indiani, dei quali circa 2.000 guerrieri) e mandò il trombettiere John Martin (di origine italiana) verso il contingente del capitano Benteen con un messaggio tanto lapidario quanto evocativo: "Benteen.
Come on. Big Village. Be Quick. Bring Packs. W.W. Cooke PS Bring pacs
" ("Benteen vieni in fretta al Villaggio Grande e porta le munizioni").
L’ordine di Custer salvò la vita al trombettiere, ma non al suo contingente.
Attaccò in modo molto temerario, fra la sorpresa dei guerrieri nativi, di numero molto superiore.

White Bull

Thatanka Skà (White Bull)


Morirono in 262 (altri 6 cavalleggeri morirono in seguito per la gravità delle ferite, mentre altri 62 feriti guarirono), si salvò solo proprio John Martin.
I nativi, guidati da Cavallo Pazzo, Toro Seduto e altri, combatterono per la sopravvivenza ed ebbero verosimilmente circa 140 morti e 160 feriti.
Come disse Chiksika, guerriero e fratello maggiore del "capo" Tecumseh, "quando un esercito dei bianchi combatte gli indiani e vince, questa è considerata una grande vittoria, ma se sono i bianchi a essere sconfitti, allora è chiamata massacro". E così avvenne.
Forse fu Thatanka Skà (White Bull) a uccidere Custer, di sicuro fu lui a guidare i guerrieri nativi cinquant’anni dopo nella cerimonia di pacificazione che avvenne sul posto con le "giacche blù" del 7° Cavalleria.
Come uno dei pochi superstiti della battaglia, Di Rudio finì sulle prime pagine di tutti i giornali americani, tra polemiche, insinuazioni, inchieste, testimonianze in aula.
Il suo valore e il suo corretto comportamento militare alla fine furono tuttavia riconosciuti.
Trasferito ad altri incarichi, fu assegnato nelle terre del Nordovest.
Qui Charles De Rudio, ormai capitano, partecipò anche all'epico inseguimento della tribù di Capo Giuseppe, l'indiano Nez Percé che era riuscito a tenere in scacco l'esercito federale con i suoi pochi guerrieri nella sua disperata fuga verso il Canada.

Charles De Rudio con le figlie

Successivamente giunse in Texas, con nuovi incarichi logistici, l'ormai anziano soldato italiano riuscì a conoscere anche il grande Geronimo degli Apache Chirichaua e nella ormai tranquilla guarnigione di frontiera, a 64 anni, nel 1896 venne collocato in congedo.
La "giacca blù" De Rudio riconobbe sempre il valore e il buon diritto di difendersi dei nativi, pur avendoli combattuti con valore.
Queste idee non trovavano buona accoglienza nei comandi dell’esercito federale con tutte le conseguenze immaginabili.
Si ritirò in California, a San Francisco e, nel 1904, gli venne riconosciuto il grado di maggiore.
Nel 1908 venne coinvolto in una polemica a carattere internazionale quando lo storico Paolo Mastri riportò sue dichiarazioni che volevano presente anche il politico italiano Francesco Crispi fra i responsabili dell’attentato (1858) a Napoleone III, ma – pur riconoscendo la presenza a Parigi in quei giorni del patriota poi divenuto anche Presidente del Consiglio – gli storici tendono tuttora a escludere una sua partecipazione al fatto di sangue.
Carlo Camillo Di Rudio morì l’1 novembre 1910 a Pasadena (California).
Nella camera erano presenti e in evidenza i ritratti di Giuseppe Mazzini e Pier Fortunato Calvi.




Il diorama.
Il soldatino rappresenta il tenente Carlo Camillo Di Rudio, divenuto Charles De Rudio per l’esercito federale, mentre galoppa con il suo cavallo durante la battaglia di Little Big Horn.
Sono insanguinati e impolverati, si comportano con coraggio e onore e, alla fine della tragica giornata, riusciranno a salvarsi.




Il figurino è il kit in metallo bianco "Major General George Armstrong Custer (1865)" della pregevole Ditta spagnola Andreas Miniatures (codice S4-S10), 54 mm., con adeguate modifiche nella posizione.
La sciarpa è ricavata da un vecchio telo quadrettato, mentre le redini sono in filo metallico.
I colori utilizzati sono gli acrilici Model e Humbrol con pennelli "tre zero" e "quattro zero", mentre l’ambientazione è ottenuta esclusivamente con elementi naturali: un basamento di roccia, foglie secche, licheni, legno, ecc.




(1) Durante le guerre indiane venne utilizzata durante una carica solo in tre occasioni, una delle quali a causa del freddo intenso che aveva reso inutilizzabili le armi da fuoco.


(2) I cavalleggeri del 7° Cavalleria vennero soprannominati “i Garry Owen”, ricordato anche nel distintivo dell’Unità. A Little Big Horn i cavalleggeri di origine italiana erano diversi: Charles De Rudio, John Martin, Felix Vinatieri, Frank Lombardi (musicista), Agostino Luigi Devoto e Giovanni Casella.



Bibliografia.

  • Jules Calvin Ladenheim, Alien horseman: an Italian shavetail with Custer, Heritage Books, 2003;
  • Cesare Marino, Dal Piave al Little Bighorn, Alessandro Tarantola editore, Belluno, 1996;
  • Jules Calvin Ladenheim, Alien horseman: an Italian shavetail with Custer, Heritage Books, 2003;
  • Cesare Crespi, Per la libertà. Dalle mie conversazioni col Conte Carlo di Rudio, complice di Felice Orsini, San Francisco, Canessa Printing, 1913;
  • AA.VV., la comunità italiana di appassionati di storia del west americano, in www.farwest.it.





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