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I Sardi nella prima guerra mondiale

Stefano Deliperi

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra al fianco delle potenze dell’Intesa contro gli Imperi Centrali.
E’ passato un secolo dall’inizio della prima guerra mondiale per l’Italia, le altre Nazioni combattevano già dal 1914, gli Stati Uniti d’America entreranno in guerra nel 1917.
Oltre 15 milioni di morti, milioni di feriti e mutilati.
Ne uscì un mondo frastornato, mai più quello precedente. E i germi delle grandi dittature del secolo breve. Portarono alla seconda guerra mondiale.
In quella vera e propria fornace umana cambiarono le vite di centinaia di milioni di persone; tantissimi soldati finirono in posti lontanissimi dalla loro immaginazione.
Come migliaia di soldati sardi, arruolati in vari reparti del Regio Esercito e della Regia Marina, in seguito anche della nascente Aviazione.
In particolare, moltissimi militeranno nella Brigata Sassari, ma anche altri reparti conosceranno gloria e notorietà, come lo Squadrone Sardo.



la Brigata Sassari all'assalto durante la battaglia dei Tre Monti (28-31 gennaio 2018)


I Cavalleggeri di Sardegna.
Eredi dei Dragoni di Sardegna, costituiti fin dal 1726 fondamentalmente per la difesa dell’Isola e il mantenimento dell’ordine pubblico, poi riorganizzati come Cavalleggeri di Sardegna e infine (1853) divenuti Corpo dei Carabinieri reali di Sardegna, viene costituito in Ozieri nel dicembre 1914, il X Gruppo squadroni di nuova formazione, comprendente il 19º squadrone ed il 20º, composti quasi interamente da personale sardo.
Con la dichiarazione di guerra italiana all’Impero austro-ungarico (24 maggio 1915), veniva subito inviato in zona operativa, sul basso corso dell’Isonzo e presso Monfalcone, con base a Isola Morosini.
Dopo i primi mesi di guerra, passati svolgendo numerosi pattugliamenti e perlustrazioni sotto il comando dei capitani Bolla (deceduto dopo qualche tempo alla guida del suo aereo durante uno scontro nei cieli di Medea sull’Isonzo), Segre e Rizzardo di Spilimbergo, giungeva l’ordine di scioglimento di tutti i reparti di Cavalleria di recente formazione al fine di rafforzare quelli di consolidata esistenza.
A impedire la completa smobilitazione del Gruppo intervenne personalmente S.A.R. il Conte di Torino, Ispettore generale dell’Arma di Cavalleria: veniva, quindi, ordinata l’immediata ricostituzione del 19º squadrone (dicembre 1915) che assunse la denominazione di 19º Squadrone Sardo – Nuova Formazione (N.F.) proprio perché costituito quasi interamente da cavalleggeri sardi.
Nel maggio del 1916 lo Squadrone Sardo veniva aggregato al Reggimento Cavalleggeri di Lodi ed inviato in Albania per coprire la tragica ritirata verso la costa adriatica dell’esercito serbo, sconfitto dalle truppe austro-ungariche.



Cavalleggero di Sardegna nella I guerra mondiale (1915, Basso Isonzo; 1916-1918, Albania)


Per circa due anni lo Squadrone Sardo svolse una logorante attività di pattugliamento e perlustrazione lungo la sponda sinistra del fiume Vojussa e, grazie all’ausilio di barconi della Marina, con veri e propri raids notturni sulla sponda destra occupata dal nemico.
Nell’estate del 1918 lo Squadrone prese parte alla grande offensiva che avrebbe portato le nostre truppe ai confini della Bulgaria.


Cavalleggeri di Sardegna

Cavalleggero di Sardegna I guerra mondiale



Il 27 giugno 1918, infatti, veniva costituita la Colonna di Cavalleria (quattro squadroni dei Cavalleggeri di Catania, due squadroni dei Cavalleggeri di Palermo e lo Squadrone Sardo, per un totale di 2.000 cavalleggeri) per una penetrazione in profondità nell’area Vojussa – Semeni.
Si trattava di un’impresa considerata quasi impossibile: l’aggiramento delle forti linee austro-ungariche sulla catena montuosa della Malacastra attraverso l’ampia zona paludosa compresa tra i corsi d’acqua della Vojussa e del Semeni.
Tutta la vallata del fiume Semeni, dal mare fino a Berat, per un tratto di circa settanta chilometri, fu teatro di sanguinosi e durissimi combattimenti che durarono per oltre un mese: secondo i rapporti dell’epoca, lo Squadrone Sardo in tutto questo tempo e in tutti i punti della vallata sostenne sempre parte attivissima.
Sempre in avanguardia quando la Colonna procedeva in avanti e di retroguardia quando essa retrocedeva.

Sciabola di Cavalleria

Il campo di aviazione austriaco di Fieri, il fronte di Metali, il torrente Kuci, Berat furono le tappe di una vittoriosa e sanguinosa avanzata nel territorio albanese occupato dagli austro-ungarici.
Per i fatti dell’estate 1918 e, in particolare, per la carica di Fieri (7 luglio 1918), lo Squadrone Sardo veniva decorato con medaglia d’argento al valor militare, unico fra i reparti minori dell’Esercito, con la seguente motivazione: "i Cavalleggeri dello Squadrone Sardo, avanguardia di un’ardita colonna di Cavalleria, travolgevano impetuosamente l’accanita resistenza nemica, seminando ovunque lo scompiglio ed il terrore.
In un mese di asprissima lotta, infaticabilmente cercavano e caricavano l’avversario, spezzandone audacemente la superiorità del numero e le ostinate difese.
Con le superbe loro gesta, l’incrollabile disciplina, l’abnegazione e l’ardimento, si congiungevano nella gloria alle più fiere tradizioni, antiche e recenti, dell’intrepida gente di Sardegna
".
Il valore dei cavalleggeri sardi veniva continuamente riconosciuto sia dagli altri reparti italiani sia dagli stessi austro-ungarici, nei loro rapporti militari, ne parlavano come del reparto "temibilissimo" della Cavalleria avversaria in Albania.
Al termine della vittoriosa prima guerra mondiale lo Squadrone Sardo veniva sciolto, ma negli anni ’30 del secolo scorso venivano ricostituiti i Cavalleggeri di Sardegna come gruppo squadroni autonomo di stanza nell’Isola.
Durante la II guerra mondiale costituirono la riserva mobile nell’Oristanese, in difesa da eventuali sbarchi alleati.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 coraggiosamente impedirono requisizioni e distruzioni da parte delle truppe tedesche in ritirata.
Vennero sciolti nel dicembre 1944.
Da allora i Cavalleggeri di Sardegna non sono stati più ricostituiti, ma sarebbe auspicabile una loro prossima nuova vita nell’ambito della gloriosa Brigata Sassari che tanto rappresenta per la storia d’Italia e l’identità della Sardegna.

Brigata Sassari

Reparto della Brigata Sassari in trincea


La Brigata Sassari.
I reparti militari della costituita Brigata di fanteria Sassari vennero costituiti alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale, l’1 marzo 1915: il 151º Reggimento venne istituito a Sinnai (CA) e il 152º Reggimento venne istituito a Tempio Pausania (SS), tratti dal Deposito del preesistente 46º Reggimento fanteria Reggio.
La Brigata Sassari andò fin da subito in prima linea sul fronte dell’Isonzo e ottenne, prima unità del Regio Esercito, la citazione sul bollettino del Comando Supremo come per le sue vittoriose ed eroiche azioni negli scontri di Bosco Cappuccio, Bosco Lancia e Bosco Triangolare.
Nel 1916 combatté sull'Altopiano di Asiago, ricevendo la prima medaglia d'oro per la riconquista dei monti del massiccio delle Melette (il Monte Fior, il Monte Castelgomberto, il Monte Spil e il Monte Miela) e del Monte Zebio.
Una narrazione di tali eventi si trova nel romanzo Un anno sull'Altipiano di Emilio Lussu, allora ufficiale della Brigata.
Nel novembre e dicembre 1917, dopo il tragico sfondamento del fronte italiano a Caporetto, la "Sassari" combatté sul Piave per fermare le truppe tedesche e austro-ungariche che già avevano occupato tutto il Friuli e parte del Veneto.
Nel 1918 combatté nella battaglia dei Tre Monti prendendo il Col del Rosso, il Col d'Echele e il Monte Valbella, ottenendo una seconda medaglia d'oro.
I reparti della Brigata "Sassari" ebbero per il loro coraggio e la loro determinazione un alto numero di vittime, ben 3.817 tra morti e dispersi e 9.104 tra mutilati e feriti.
Il 13,8% degli effettivi contro il 10,4 della media nazionale (138 sassarini ogni 1000 incorporati contro la media nazionale di 104).
La Brigata, i cui reparti inquadravano in media 6.000 soldati, venne ricostituita due volte.
Per rigenerarla furono trasferiti nelle sue file i soldati sardi che militavano in altri reggimenti.
Per il suo valore la Brigata e i suoi soldati saranno decorati di:

  • 6 Ordini Militari di Savoia.
  • 13 Medaglie d'oro al valor militare: 9 a ufficiali e soldati; 2 alla bandiera del 151º Reggimento Fanteria; 2 alla bandiera del 152º Reggimento Fanteria. L'ottenimento nell'arco di una sola campagna di guerra di 2 medaglie d'oro alla bandiera per ciascun reggimento è un caso rimasto unico nella storia dell'Esercito italiano.
  • 405 medaglie d'argento.
  • 551 medaglie di bronzo.
  • 4 citazioni speciali sui bollettini del Comando Supremo.
  • 1 citazione all'ammirazione dell'Esercito e della Nazione dal Comandante del Gruppo speciale di retroguardia dell'Esercito Tenente Generale Antonino Di Giorgio, per l'abnegazione e l'eroico contegno tenuto durante la ritirata sul Piave;
  • "drappelle reali" (scudo sabaudo e stemma di Sardegna) conferite motu proprio dal re Vittorio Emanuele III alle fanfare dei due reggimenti come riconoscimento delle speciali benemerenze acquisite in guerra.



Caduti della Brigata "Sassari" sui reticolati


La Brigata rimase in servizio permanente al termine della guerra proprio come riconoscimento per il valore dimostrato.
Nel corso della seconda guerra mondiale, inquadrata come 12ª Divisione di fanteria Sassari combattè nel duro fronte dei Balcani (occupazione della Jugoslavia) e in difesa di Roma.
Sciolta dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, venne ricostituita nel 1988.
In questi ultimi anni, dopo vari rinforzi, è stata schierata in missioni di mantenimento della pace (o peacekeeping) in Irak e in Afghanistan.

Quello che segue è un racconto basato su fatti storicamente avvenuti, i personaggi sono inventati, forse.
Il Tenente, per esempio, nacque a Sassari il 15 settembre 1891 e morì il 21 dicembre 1976, sempre a Sassari.
Un ricordo per chi non c’è più, con la speranza di aver imparato qualcosa da quanto accaduto più o meno un secolo fa.



la Brigata Sassari all'assalto durante la battaglia dei Tre Monti (28-31 gennaio 2018)


L’amaro sapore della guerra.
Una storia

Non finirà mai, non finirà mai....
Il Tenente squadrava l’orizzonte con i suoi cannocchiali di preda bellica; tecnologia Weiss, tedesca, la migliore, utile ricordo di quando aveva contribuito, con i suoi trent’anni ed il suo plotone, a fermare tedeschi ed austriaci che venivano giù ad ondate durante la Strafe Expedition, la spedizione punitiva che volevano portare fino alle estreme conseguenze contro il vecchio alleato, l’Italia, ora nemico.
Volevano dilagare dall’Altopiano di Asiago fino a Verona e Vicenza, fin giù a Venezia.
Fino a strangolare mortalmente uno dei più coriacei avversari degli Imperi Centrali.
Ma qui avevano trovato Die Reute Teufel, quei maledetti italiani di razza "strana", quei maledetti sardi, scuri, piccoli, cattivi, senza alcuna pietà.
Non facevano prigionieri, non indietreggiavano, assaltavano le truppe delle Maestà Imperiali di Austria – Ungheria e di Germania senza paura, con selvaggia violenza.
In quei frangenti di morte usavano più il loro coltello, sa leppa, che il moschetto.
Non seguivano le leggi della guerra, quei maledetti, pronti a sgozzare e scannare anche i fedeli e duri soldati bosniaci dell’Aquila bicipite, gente avvezza a qualsiasi sorte.
Questo pensavano i crucchi dei sardi della Brigata Sassari.
E il Tenente lo sapeva, e, quando ritornava in mente, costituiva uno dei pochi momenti di orgoglio puro che ancora riusciva a provare dopo tre anni di guerra.
Tre anni ai quali doveva sommare altri due anni di guerra contro i Turchi e gli Arabi per la conquista della quarta sponda, la recente colonia della Libia.
Lì aveva fatto quello che da sempre avevano fatto i maschi della sua stirpe, prima al soldo di chi pagava meglio e con puntualità, poi per il Regno di Sardegna e l’unitario Regno d’Italia.
Tanto da guadagnarsi col sangue anche qualche titolo nobiliare oltre che una più concreta agiatezza. Il soldato a cavallo.
Era bello conquistare spazi immensi a cavallo, dalla costa al deserto; si trattava di spazi immensi di sabbia e spesso si era chiesto che diavolo c’erano andati a fare, che razza di conquista era.
La retorica ufficiale declamava giardini, coltivazioni e frutteti da strappare al deserto, chissà come.
Aveva persino rivalutato la sua Nurra, che gli era sempre apparsa tanto selvaggia quanto povera, ma, almeno, erano davvero spazi immensi, senza confini.
In questa "grande guerra", come ormai tutti la chiamavano, la facevano da padrone le trincee, il fango, la sporcizia, i topi, ma soprattutto la ristrettezza degli spazi.
Pigiati nelle trincee in attesa del nemico, stretti nei rifugi durante i bombardamenti di artiglieria, accalcati nell’attimo prima del balzo verso le postazioni ostili.
Così la pensava il Tenente.
Odiava più di tutto la mancanza di spazio; aveva dovuto, per questa "grande guerra" sempre più sanguinaria, anche abbandonare il cavallo temporaneamente, sperava.
Quando era stato richiamato, nelle"radiose giornate" del maggio 1915 segnate dalle manifestazioni popolari animate dal Vate Gabriele d’Annunzio, alla vigilia della dichiarazione di guerra all’Austria – Ungheria, era stato assegnato ai Cavalleggeri di Sardegna.
Dopo qualche mese, segnato da continui pattugliamenti e scontri a cavallo sul basso corso dell’Isonzo, il fronte si era stabilizzato e, come molti altri cavalieri, si era trovato a servire la Patria in trincea, insieme ai fanti, suo malgrado.
Aveva mantenuto le proprie mostrine, il frustino, la sciabola da cavalleria, gli speroni, nonché il proprio cavallo presso la nuova destinazione, il 151º Reggimento Fanteria della Brigata Sassari, di nuova formazione.
Dopo le sanguinarie conquiste di Bosco Cappuccio, del Trincerone, della Trincea delle Frasche e della Trincea dei Razzi era addirittura giunta la prima citazione sul bollettino di guerra del Comando Supremo.
Non era mai accaduto che una singola unità dell’Esercito venisse espressamente segnalata all’ammirazione della Patria.



L'Unione Sarda, 16 novembre 1915


Erano eroi per la Patria oltre che carne da macello, e il Comando Supremo decise di sfruttare fino in fondo le caratteristiche di questi novelli eroi.
Tutti i soldati sardi dovevano finire alla Brigata Sassari.
Così il Tenente non andò con i suoi Cavalleggeri di Sardegna, sardi anch’essi, in Albania, a proteggere il fianco serbo, ma si ritrovò in trincea con i fanti della Brigata Sassari.
Lo ritenevano un comandante di valore e ne avevano maggior bisogno lì, sul Carso.
E ci si trovava bene, uomini tutti d’un pezzo, forse poco duttili, ma coraggiosi fino alla follìa, leali verso i camerati, visto che la guerra aveva fatto superare anche i cento campanili della terra d’origine.
Fortza Paris, tutti insieme balzavano al mortale assalto contro i reticolati, le fiammelle azzurògnole delle mitragliatrici, i fucili del nemico trincerato.
Nessuno si tirava indietro, nessuno marcava visita, nessuno voleva perdere la faccia davanti al proprio popolo in armi.
Ed i primi ad assaltare erano gli ufficiali, rivoltella in pugno: davano l’esempio, ma, soprattutto, condividevano la sorte, la morte, la gloria dei loro soldati.
Non li avrebbero mai abbandonati per tutte le medaglie del mondo, questo i fanti lo sapevano e, diàulu, li avrebbero seguiti anche all’inferno, se necessario.
E l’inferno era già lì, aveva risparmiato loro la fatica di cercarlo ed era venuto sotto i loro occhi, per godere della loro sorte.
Gente come il Capitano Emilio Lussu, il Tenente Alfredo Graziani, il Maggiore Musinu erano leggende viventi per i loro soldati.
Fino al maggio 1916 il Tenente e la sua Brigata rimasero sul Carso, spesso guadagnandosi ancora altro riconoscimento della Patria ed anche un po’ di divertimento facendo quelle spedizioni ardite che li esaltavano; veri e propri colpi di mano con coraggio e destrezza dietro le linee austro-ungariche.
Famoso era rimasto quello che aveva visto protagonisti proprio il Tenente ed una squadra scelta del suo plotone.
Avevano addirittura razziato una ventina di cavalli, completi di finimenti, dietro le linee nemiche.
Avevano deciso che dovevano correre un palio ma non avevano cavalli.
E il Tenente, a muso duro, non aveva voluto far rischiare il suo sul terreno accidentato; Terranova, splendido baio scuro di sette anni; allora non gli era venuto nulla di meglio in testa che sfruttare la prima occasione, il successivo pattugliamento avanzato, per fare una piccola ed insignificante deviazione con il favore delle tenebre.
La mattina dopo, sotto le sfuriate dell’Oberstleutnant Karl von Salza, il povero Rittmeister Hans Koper aveva sguinzagliato i suoi fantaccini per ritrovare i cavalli misteriosamente scomparsi dallo Stato Maggiore del 74º Reggimento Fanteria di Sua Maesta di Austria – Ungheria.
Non ne erano venuti a capo.
In quelle medesime ore il Tenente ed i suoi uomini rientravano a cavallo fra le grida e le risate dei soldati del Reggimento.
Gli ufficiali superiori ed anche il Colonnello Comandante avevano lodato, seppure con la dovuta prudenza, il Tenente ed i suoi soldati per il coraggio ed il buonumore che avevano portato, ma la cosa arrivò chissà come alle orecchie di qualche "alto papavero"... sfortunatamente.
Il Tenente venne immediatamente convocato al Comando della Brigata e dovette sorbirsi un’energica lavata di capo: era in bilico verso la Corte marziale.
Per aver interpretato con fin troppa disinvoltura gli ordini assegnati.
"Vi dovete sempre ricordare che siete un ufficiale del Regio Esercito, non un volgare bandito di strada! Avete, messo a repentaglio la vita dei vostri uomini per rubare dei cavalli, ma siete impazzito? E che cosa ve ne dovrete mai fare di questi cavalli?    Mangiarli?".
Le urla del Capo di Stato Maggiore della Brigata si sentivano fin da lontano, ma il Tenente era rimasto impassibile; aveva, poi, replicato serenamente, con una non comune faccia tosta, che intendevano correre un palio con cavalli montati a pelo, così come si usava nella loro Isola, per sentirsi un po’ in Sardegna: avrebbe partecipato l’intero Reggimento.
A quel punto, allibiti, lo congedarono e rimasero un bel po’ indecisi se sbatterlo davanti alla Corte marziale ovvero citarlo come esempio di coraggio, di audacia e di intraprendenza.
In un momento in cui le giovani generazioni d’Italia venivano falciate senza risparmio nel più ottuso rosàrio di assalti frontali contro posizioni imprendibili, allo Stato Maggiore della Brigata ne fecero un esempio di supremo spregio del pericolo e di coraggio dannunziano.
Era la dimostrazione vivente che il Soldato d’Italia poteva farsi beffe del Nemico come e quando voleva.
La "beffa dei cavalli" venne anche immortalata in una copertina della Domenica del Corriere e additata all’ammirazione della Nazione.
Incuranti di tutta la buriana, al ritorno del Tenente al Reggimento, soldati ed ufficiali parteciparono allegramente al palio, alla corsa di Santu Antine sulle balze del Carso.
Ma, se possibile, il Tenente aveva dato ulteriore prova di che pasta era fatto e di che pasta erano i suoi soldati nei tragici giorni della ritirata dopo lo sfondamento del fronte nord-est a Caporetto, alla fine dell’ottobre del 1917.


Ritorneremo

La Brigata, dopo l’offensiva della Bainsizza del settembre precedente, si trovava in riposo nelle retrovie e lì giunsero le tragiche notizie.
La II Armata si era sfaldata, solo alcuni reparti isolati di Alpini resistevano ancora.
La fiumana frammista di profughi friulani e di soldati in ritirata o sbandati rifluiva verso il Veneto, oltre il Tagliamento ed il Livenza.
Molti reparti si arrendevano alle colonne austro-tedesche in corsa verso Venezia.
Interi Reggimenti di cavalleria, come centauri lucidamente impazziti, caricavano senza speranza il Nemico, come a Pozzuolo del Friuli, per consentire al grosso delle truppe dell’invitta III Armata del Duca d’Aosta di salvarsi dietro la nuova linea di difesa approntata in fretta e furia.



Cagliari, partenza dei soldati verso il fronte, maggio 1915


Le accuse di viltà e codardìa verso i soldati già provati da duri anni di guerra erano all’ordine del giorno da parte del Comando Supremo del Generalissimo Cadorna; nemmeno poteva essere sfiorato dall’idea che i propri Comandanti di settore del fronte potessero aver sbagliato, nemmeno lontanamente poteva ipotizzare un sanguinoso "errore" addirittura del proprio entourage, pur avvertito dai servizi di informazione militari e da alcuni disertori boemi dell’imminente offensiva dei crucchi.
Ma alla Brigata Sassari quell’accusa di vigliaccheria proprio non andava giù, al Tenente in particolare.
Erano carne da macello, buona per martellare e scannare un nemico disgraziato come loro, ma nessuno si era mai tirato indietro.
Il reparto del Tenente era proprio l’ultimo a passare il Piave.
Aspettavano con ansia soltanto loro, i prodi genièri, per far saltare l’ultimo ponte.
Erano in attesa, su un’altura presso le sponde di destra del fiume, sulle estreme nuove difese, alti ufficiali d’Armata e ufficiali della Brigata.
Altri reparti sostavano e si riorganizzavano.
Una colonna austro-tedesca era immediatamente alle loro spalle e piovevano colpi di mortaio sempre più allungati.
Le grida di incitamento dei genieri erano alte.
A trecento metri dal ponte il Tenente ordinò l’alt ed il plotone rispose all’unisono.
"Bilanc’iarm! Avanti, passo!"        Il plotone, con in testa il Tenente con la sciabola da cavalleria sguainata, marciava come fosse in piazza d’armi.
Gli ufficiali d’Armata erano sbigottiti: ma che stava facendo quel pazzo? Non sentiva i crucchi alle sue spalle? Attraversarono il ponte sotto lo sguardo incredulo di una pattuglia avanzata di Ulani tedeschi.
Il loro ufficiale ordinò di presentare le armi in segno di rispetto.
Il Tenente rispose con un cenno del capo ed il plotone continuò la sua marcia cadenzata.
Oltrepassato il ponte, il Tenente ordinò l’attenti a sinistr’ in onore degli alti ufficiali; questi, mentre lo sbigottimento svaniva, scattarono sull’attenti mentre il ponte, finalmente, saltava in aria.
Dopo un tale comportamento sotto il fuoco nemico il Tenente venne considerato toccato dal sacro fulmine della pazzìa.
Questa volta a nessuno saltò in mente di spedirlo davanti alla Corte Suprema.
Il Vate Gabriele d’Annunzio, ufficiale di cavalleria prestato alla nascente aviazione e futuro trasvolatore di Vienna, gli fece pervenire un biglietto colmo di ammirazione.
Non se ne curò molto, interessava soltanto sbattere in faccia a quel demente del Generalissimo Cadorna che, se c’erano vigliacchi e idioti, erano al Comando Supremo, non certo fra il sangue ed il fango del fronte.
Ed ora la Brigata era di nuovo schierata sull’Altopiano di Asiago.



Coscritti di Urzulei e Talana al Consiglio di leva di Lanusei, 1905


Faceva un freddo polare, in quel gennaio del 1918.
Ormai il Regio Esercito attingeva alle generazioni più giovani: arrivavano ragazzini della leva del 1899, diciotto anni appena compiuti, spesso non avevano mai messo il naso fuori dal loro paese.
Dalla Sardegna arrivavano servi-pastore che non avevano fatto altro che correre dietro il loro gregge e, a mala pena, sapevano scambiare quattro parole in limba.
Cosa diavolo potevano capire della "guerra mondiale", del "ricongiungimento alla Patria di Trento e Trieste" ? Il concetto che apprendevano dai loro camerati veterani era molto semplice: dovevano comportarsi bene davanti al Reggimento, senza alcuna paura del nemico, e, se ce la facevano, dovevano salvare la pelle.
Ma sempre da balentes autentici; dovevano ammazzare più austriaci possibile per non essere uccisi. E basta.
Questo il Tenente lo sapeva benissimo e non faceva altro che diluire sempre più il suo entusiasmo risorgimentale; ve n’era sempre meno.
Ora la Brigata era passata alle dipendenze della 33ª Divisione Fanteria comandata dal Generale Carlo Sanna, anch’egli sardo, e aveva avuto un ordine: riprendere il Monte Val Bella, il Col del Rosso ed il Col d’Echele, i tre Monti persi dal Regio Esercito nella battaglia di Natale.
Soprattutto le truppe austro-ungariche del Generale Conrad puntavano su Bassano del Grappa per poi dilagare su Vicenza e Venezia.
Ci provavano, ancora una volta, forse l’ultima.
Le artiglierie avevano iniziato a sgranare i loro infiniti colpi, prima i gas, poi gli onesti proiettili che facevano saltare senza malizia teste, gambe e braccia; questa volta gli attacchi non erano frontali, dovevano cercare di aggirare i capisaldi ed andare avanti.
Il Nemico non era distratto, sapeva anch’egli che la distanza fra la vita e la morte poteva essere più sottile di un crine di cavallo.
La 106ª Divisione Landsturm, la 52ª Brigata di Fanteria, reparti della 18ª e della 21ª Divisione, quattro battaglioni di Kaiserjager si opponevano al tentativo di rivalsa italiano.
Neve e gelo; la temperatura era piuttosto sotto lo zero, quel 28 gennaio 1918.
Il fil’e ferru e la grappa d’ordinanza erano stati distribuiti con generosità.
Attraverso i fianchi boscosi del Col del Rosso anche il Tenente ed il suo plotone avevano aggirato il caposaldo austriaco.
Quando vi penetrarono, fu un diluvio di bombe a mano e pistole mitragliatrici ma soprattutto di leppe, usate con destrezza e senza risparmio.
Tuttavia, i soldati di Sua Maestà Imperiale di Austria – Ungheria non si erano dati per vinti; con il coraggio e la forza della disperazione avevano dato fondo a tutte le riserve ed erano tornati avanti.
"Non finirà mai, non finirà mai..." Il Tenente, con i suoi cannocchiali Weiss, vedeva torrenti di nemici avanzare compatti dalla Val Fonda, dalla Val Fontana, dalla Val Scura; si guardava intorno e vedeva tanti, troppi, omini in grigio-verde sparsi come inerti fantocci sull’erba e sulle rocce. Con macchie scure inequivocabili. Con i colori delle divise tristemente simili, pur fra nemici.
Ora fluttuavano inesorabilmente indietro gli italiani, soverchiati per numero.
"Hurrà!   Hurrà!" Salivano le urla di incitamento dei crucchi.
Il caposaldo di Monte Melaghetto era rimasto isolato con quarantatrè ragazzini della classe 1899; erano circondati e senza più ufficiali, morti.
Ma non si arrendevano.
Anche un reparto di Alpini si ritirava precipitosamente, quasi senza più ordine.
Il Tenente, comunque, non riusciva più ad odiare i nemici. Ormai da tempo gli apparivano poveri disgraziati finiti come loro in una fornace inesauribile.
Non li odiava, ma la loro morte significava la salvezza dei suoi soldati.
Afferrò per il bavero un Alpino che correva a perdifiato.
"Dove scappi? Fermati, se vuoi rimanere vivo!".
"Siòr Tenente, venite via anca voi, non se poe far più niente!".
"Stai qui, altrimenti ti ammazzano alle spalle. Di dove sei?".
"Mi?  De Vicenza.  E non la vedrò più, se continua così"...
"Se rimani qui e ti dai da fare, la potrai rivedere. Forse. Qui nessuno scappa"..
Il Tenente squadrò i suoi uomini, uno ad uno. Sapeva che nessuno di loro sarebbe fuggito.
I soldati sardi guardarono l’Alpino con un misto di commiserazione e di preoccupazione.
Pensavano che non avrebbe dovuto mettersi le gambe in spalla davanti ai crucchi, non doveva perderci la faccia con i commilitoni.
Però sapevano anche che gli Alpini non erano certo delle mammolette quindi la situazione doveva essere piuttosto grave.
"Come ti chiami?" Francesco Scintu, Caporalmaggiore di Pìmentel, si era fatto avanti ed interrogava il nuovo arrivato, ancora con gli occhi sgranati dalla paura.
"Mi son Bepi Schiavon, carpentiere; prima de partir in guera".
"Stai qui e fai il tuo dovere. Così tornerai a farlo dopo, quando sarà finita; se muori, avrai salvato altri soldati e anche casa tua. Siamo l’ultimo reparto dei nostri, dopo non c’è nessuno, e andranno in pianura".
Anche i semplici fanti avevano capito che il Nemico era ad un passo dallo sfondare il fronte.
"A no, par gniente al mondo che ‘sti bastardi riva fin casa! Maledetti!" L’Alpino, alle parole del Caporalmaggiore sardo, era divenuto furente.
Inveiva e sacramentava, come se volesse tirar giù tutti i santi del Paradiso.
Prese ad urlare agli altri alpini che vedeva arretrare precipitosamente.
A forza di imprecazioni era riuscito a raccoglierne una ventina, alcuni feriti e male in arnese, ma ancora in grado di reggere un fucile.
Era l’ultima linea e c’era bisogno di tutti.
I soldati erano dietro le rocce, gli arbusti, ogni riparo disponibile.
Il Tenente diede ordine di attendere; avrebbero sparato soltanto con il nemico a tiro ravvicinato... e, poi, che Dio la mandasse buona.
Gli hurrà dei Kaiserjager erano sempre più forti, sempre più vicini.
A cinquanta metri la fucileria dei fanti italiani, nascosti alla vista dei soldati di Sua Maestà Imperiale, sbarrò la corsa verso la pianura; molti di loro, ormai certi della vittoria, vennero atterrati dalla violenza del piombo, incrèduli verso la morte.
Salivano ad ondate, spezzate più volte dal fuoco dei moschetti modello 1891.
Ma anche le file dei fanti italiani divenivano più rade.
Ad un colpo d’occhio il Tenente capì che non potevano reggere per molto tempo ancòra: fu il pensiero d’un attimo.
"Avanti, Sardegna!" L’urlo uscì d’impeto, senza che il pensiero potesse governarlo.
In mezzo al fuoco, alle grida, ai lamenti dei feriti, i soldati sardi lo sentirono e non fu più solo un urlo, fu un tuono, fu la disperazione, fu una maledizione gridata con tutto il coraggio e tutta la paura che convivevano nei loro animi.
I superstiti, ormai poche decine, si lanciarono come un solo violentissimo pugno.
Il Tenente con la sua sciabola e la rivoltella, i fanti con la baionetta inastata e con le affilate leppe.
Fu un breve, sanguinoso, corpo a corpo, senza alcuna pietà, senza umani frèni. Senza prigionieri.
Kaiserjager, rimasti comunque in numero molto superiore, cedettero terrorizzati e fuggirono, la gran parte abbandonando le armi e i feriti.
Il Tenente dovette gridare ancòra di più per far cessare la carneficina. Prese nuovamente per il collo il povero alpino Bepi Schiavon, coperto di sangue proprio ed altrui, e dovette togliergli dalle mani un disgraziato di austriaco: lo stava uccidendo a mani nude. Ormai impazzito per la rabbia e la paura.
"Basta! Fermati, lo vedi che è già quasi morto per conto suo? ".
L’Alpino ebbe un sussulto, si ricordò che era un cristiano e si fermò.
Il Col del Rosso era preso, definitivamente.
A sera ripresero contatto con il presidio isolato del Monte Melaghetto, ne erano rimasti vivi soltanto diciannove, quasi tutti feriti. Ma non avevano ceduto.
Era la prima grande vittoria dopo le tristi giornate di Caporetto, ma soprattutto avevano stroncato la reazione del Nemico.



Arditi della Brigata Sassari sul Carso Isontino, autunno 1915


Il 2 febbraio 1918 finalmente la Brigata aveva il cambio sulla prima linea; scendeva a riposarsi a Vicenza.
E all’ingresso in città, il giorno seguente, un tripudio di folla.
La Brigata marciava in ranghi compatti, bandiere al vento; due ali di popolo si accalcavano, toccavano i soldati, lanciavano fiori, offrivano vino, agitavano fazzoletti, i bambini delle scuole sventolavano bandierine tricolori con le loro maestre.
La banda cittadina suonava incessantemente musiche patriottiche ed allegre, erano impazziti dalla gioia.
L’intera rappresentanza municipale si era presentata allo Stato Maggiore offrendo le chiavi della città.
I fanti erano frastornati, non si aspettavano una simile accoglienza, si chiedevano che cosa avevano fatto di così straordinario, oltre che continuare a vivere.
Anche il Tenente ed il suo plotone vennero letteralmente circondati da un intero quartiere di gente festante, facevano fatica a rimanere un minimo inquadrati.
Alcuni maggiorenti, con cappotto, scarpe lucide e tuba, si fecero avanti: "Signor Tenente, a nome di tutti noi, desideriamo ringraziare i soldati d’Italia, i soldati della Sardegna, per aver salvato Vicenza e le nostre case, per aver respinto il crudele nemico. Come possiamo sdebitarci ?".
Il Tenente guardò i suoi uomini, ripercorse con la memoria tutti quelli che ormai mancavano.
"Signori, la vostra accoglienza ripaga di tanti sacrifici, ma non sarebbe giusto verso i miei uomini rifiutare tale generosa offerta. Scrivete alle famiglie dei caduti come si sono comportati i loro figli, che cosa hanno fatto. Qui, in questa terra così lontana dalle loro case. A questi uomini coraggiosi, scampati ad una battaglia così aspra, credo che sia una buona cosa offrire una cassa di birra".
I fanti esultarono, dopo tante parole, qualcosa di gradito e concreto.
La sorpresa per la richiesta scemò in fretta ed in poco tempo l’intera piazza era in festa; grazie anche alla birra dei soldati ed alla disponibilità delle popolane vicentine.
Qualche giorno dopo era stato il nuovo Comandante supremo del Regio Esercito, il Generalissimo Armando Diaz, a dare eterna riconoscenza alla Brigata schierata in forze.
"...Voi non sapete, e forse non saprete mai, quanto avete fatto per l’Italia".
Quelle parole rimasero sì impresse, anche per il loro misterioso significato alle menti dei fanti sardi. Riempirono, comunque, l’animo, tuttavia non dicevano che la carneficina era terminata, anzi, continuava.
"Fino alla definitiva sconfitta del tiranno inimico, fino a liberare i fratelli di Trento e Trieste". Così aveva detto il Comandante supremo.
E fra i soldati della Brigata, oltre alle parole della retorica, continuavano ad albergare le tesi più disparate su dove davvero fossero Trieste e Trento e su chi realmente vi abitasse e quale distanza avevano ancora da percorrere combattendo e morendo per giungervi.
In molti pensavano che doveva essere una distanza molto più lunga che quella fra il loro paese e Cagliari, la Casteddu della lontana Isola.
Il Tenente ascoltava i discorsi dei soldati e annuiva sorridendo; sapeva ormai quanti chilometri, quanto tempo, quanto sangue sarebbe costato liberare Trento e Trieste e quanti di loro non avrebbero visto quel giorno. Ma questo era un pensiero da rimandare al giorno dopo, oggi erano ancora vivi e si doveva festeggiare.
In piazza si ballava al suono di un’orchestrina improvvisata, ma orecchiabile.
Popolani, commercianti, borghesi, per quelle ore non si vedevano differenze di classe e condizione.
E il Tenente si fece trascinare, ma con poco sforzo, da una ragazza con un ampio scialle a fiori in una polka in mezzo alla folla festante.
La ragazza rideva lievemente e volava leggera; il fango, il rombo del cannone, i grigi cadaveri, Trento e Trieste sarebbero ritornati soltanto il giorno dopo.
 
(da Stefano Deliperi, Storie di uomini e di tempi, La Riflessione editrice, Cagliari, 2006)



Sacrario di Redipuglia


I diorami.
Il soldatino a cavallo rappresenta un Cavalleggero dello Squadrone Sardo in Albania (1916-1918), durante la prima guerra mondiale, con la caratteristica divisa grigio-verde del Regio Esercito.
Il figurino è una trasformazione del kit in metallo bianco della Baby’s Store Modellismo relativo al Cavalleggero italiano in Libia (1911-1912), della apprezzata serie "Cavalleria Italiana".
La testa è quella del Cavalleggero della prima guerra mondiale alla carica (BS 11), sempre della stessa serie della Ditta romana.
I colori utilizzati sono gli acrilici Humbrol, mentre l’ambientazione è ottenuta esclusivamente con elementi naturali: foglie secche, licheni, legno, ecc.




L’attacco della Brigata Sassari è un momento della Battaglia dei Tre Monti, combattuta fra il 28 e il 31 gennaio 1918 sull’Altopiano di Asiago per la riconquista del Col del Rosso, della Val Bella e del Col d'Echele, il primo segnale di riscossa del Regio Esercito dopo la disfatta di Caporetto e il ripiegamento sul Piave.


Battaglia dei Tre Monti

Battaglia dei Tre Monti, 1918


I soldatini sono della Waterloo 1815 (Italian Infantry WWI), della Hat (WWI Austrian Artillery Crew) e, con qualche modifica, della Revell (German Infantry) per poter avere figurini con elmetto (ampiamente in uso nelle truppe austro-ungariche nel 1918), mentre i colori utilizzati sono gli acrilici Humbrol, mentre l’ambientazione è ancora ottenuta con elementi naturali (foglie secche, licheni, legno, ecc.).




Per chi volesse visitare i luoghi della guerra....
Sono numerosi i luoghi visitabili dove un secolo or sono si combatteva la I guerra mondiale sul fronte fra Italia e Austria-Ungheria.



Monfalcone, trincea quota 85


Fra i siti web più approfonditi e completi per poter vedere di persona i siti della Grande Guerra, è da segnalare sicuramente www.itinerarigrandeguerra.it, realizzato con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, delle Regioni Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Lombardia e delle Province autonome di Trento e di Bolzano.




Bibliografia.

  • Alfredo Graziani, Fanterie sarde all’ombra del tricolore, 1934;
  • Massimino Pau, Squadrone Cavalleggeri di Sardegna. Cenni storici dello Squadrone nella guerra 1915 - 1918, Cagliari, 1937;
  • Alberto Monteverde, Trincee. I Sardi nella grande guerra, Club Modellismo Storico, Cagliari, 2001;
  • Alberto Monteverde e Emilio Belli, Guerra! La Sardegna nel secondo conflitto mondiale, Cagliari, 2004;
  • Paolo Pozzato (a cura di), Un anno sull’Altipiano con i Diavoli Rossi, Ed. Gaspari, 2006;
  • Giuseppina Fois, Storia della Brigata Sassari, Ed. Della Torre, 2006;
  • Ministero della Difesa – Stato Maggiore Esercito, Diario storico dello Squadrone Sardo;
  • Arma dei Carabinieri, sito web www.carabinieri.it.
  • AA.VV., www.brigatasassari.it;
  • Brigata meccanizzata "Sassari", in www.esercito.difesa.it.


Commento di Riccardo Boi [31/07/2015]:
Stefano, un lavoro grandioso!! Nel racconto vedo tracce di Graziani e Musinu. Giusto?
Puro orgoglio

Commento di giuseppe giovenco [31/07/2015]:
decisamente una pagina di storia nel vero senso dell'articolo che hai confezionato!!!!!
mio nonno nella 15-18 aveva un attendente sardo che gli era fedelissimo e, quando raccontava qualche episodio, lo ricordava con grande piacere

grazie, Stefano!!

Commento di Riccardo Boi [31/07/2015]:
Giuseppe, nessuna polemica, però film e libri ci han tramandato una storia di sardi che fan i tamburini o gli attendenti. Per carità, incarichi degnissimi. Alla fine però si è entrati nei cliché. Ecco, lavori come quello di Stefano possono aiutarci a uscirne

Commento di Vito [31/07/2015]:
Ciao Stefano, una ricostruzione davvero ben curata ma soprattutto un gran bel lavoro.

Complimenti Vito

Commento di Stefano Deliperi [31/07/2015]:
grazie per le belle parole! Nell'articolo, nei "soldatini", in particolare nel racconto c'è un po' di Graziani, un po' di Musinu, un po' di Lussu, un po' di mio nonno, un po' di ognuno delle migliaia di uomini e di ragazzini che andarono in guerra.
Sono passati cent'anni, proviamo a immaginare, a ricordare che cosa hanno vissuto, nel nostro piccolo.
La loro storia è anche la nostra, non dimentichiamola.

Commento di Giampaolo Bianchi [01/08/2015]:
Complimenti per il dettagliatissimo articolo e per l'accuratezza ricostruzione storica.
Giampaolo Bianchi.

Commento di ezio bottasini [10/08/2015]:
Ciao Stefano, leggo solo ora il tuo articolo, una commovente narrazione di fatti vissuti dai nostri nonni, fatti che hanno cambiato il mondo e l'Italia, rendendola di nuovo unita; complimenti per il lungo stralcio del tuo libro che ci hai permesso di leggere "gratis" e ancora una volta per la storia vissuta da tante o poche persone ma che in ogni caso hanno contribuito a cambiare gli eventi.
Un caro saluto Ezio

Commento di Stefano Deliperi [08/09/2015]:
Grazie Ezio, grazie Giampaolo, per le belle parole, ho cercato solo di rendere un po' il clima e gli stati d'animo di chi cent'anni fa si ritrovò nella fornace della guerra. Non dimentichiamo che cosa é accaduto, potrebbe insegnarci molto anche per il presente e il futuro. Anche attraverso i nostri "soldatini".



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